Il PD inizia a perdere i pezzi: il senatore Borghi se ne va

Di Gerardo Valentini

Era previsto. Se ne era spiegato il perché. E infatti sta accadendo. O, se preferite, sta cominciando ad accadere: perché l’uscita dal PD del senatore Enrico Borghi, che ha deciso di andarsene in quanto «è diventato la casa di una sinistra massimalista», ha ottime probabilità di non rimanere un caso isolato.

Il motivo, appunto, è che l’avvento di Elly Schlein ha accentuato certe posizioni a scapito di altre, scuotendo gli equilibri interni e spostando il partito su direttrici diverse da quelle originarie.

Fondato nell’ottobre 2007 per unire i post democristiani della Margherita e i post (molto post) comunisti dei DS, già passati dal risciacquo preliminare del PDS, il nuovo sodalizio era il tentativo di trasformare un cartello elettorale di “centrosinistra” in un soggetto politico stabile.

L’alleanza nelle urne era prettamente tattica. Dettata dall’esigenza di raccogliere più voti per dare la caccia  al premio di maggioranza previsto dal famigerato Porcellum, che era già stato utilizzato per le Politiche del 2006 e che sarebbe rimasto in vigore per quelle del 2008 e del 2013, prima di essere dichiarato parzialmente incostituzionale nel gennaio 2014. 

Il neonato PD cercava di consolidare l’intesa sino a farne un progetto strategico e a lungo termine. Della serie: si scrive riformismo, si legge appiattimento sui diktat della Commissione Europea. Si scrive progressismo, si legge governo (o sottogoverno).

Con tutti i suoi limiti e le sue ambiguità, al limite del posticcio o anche oltre, si trattava però della coesistenza di elementi eterogenei. Ovvero, della mediazione tra matrici differenti e obiettivamente alternative/incompatibili come lo sono, alla lunga, il cattolicesimo e il razionalismo iper laico. Con in più l’aggravio, si intende, dei complicati rapporti interni tra le diverse cordate. Una contesa senza fine dove le frizioni latenti sono perenni e gli accordi, più o meno sottotraccia, rimandano all’infinito i chiarimenti sostanziali e alla luce del sole.

Poi, com’è noto, nel febbraio scorso si è imposta Elly Schlein, “a furor di gazebo”, e si è aperta la fase del presunto rilancio. Sull’onda di una speranza a dir poco azzardata: aggiungere tanti nuovi elettori, grazie al restyling della neo segretaria, senza perderne nessuno, o quasi, tra quelli vecchi.

E i moderati chi se li prende?

Torniamo al senatore Enrico Borghi. Nell’intervista uscita su Repubblica mercoledì scorso, dopo aver puntualizzato che «le prime scelte di Schlein rappresentano una mutazione genetica: da partito riformista a un partito massimalista di sinistra», ha aggiunto di essere «convinto che ci sia invece un elettorato moderato che ha bisogno di una casa. Dobbiamo impedire che vada in porto il progetto di Giorgia Meloni di lanciare una opa sui moderati italiani».

Al di là del suo caso personale, e della sua decisione a dir poco discutibile di accasarsi con Italia Viva, la questione è tutt’altro che infondata.

L’abbaglio del PD versione Schlein, infatti, nasce ancora una volta dall’illusione, e dalla pretesa, di poter tenere insieme tutto e il contrario di tutto. Come si dice, il diavolo e l’acqua santa. Il diavolo del modello economico dominante, nella sua declinazione tecnocratica e super competitiva, e l’acqua santa della lotta contro le disuguaglianze.

A sentir loro dovrebbe essere una sintesi. Di fatto è un pasticcio. O, peggio, un raggiro. Con il quale si confida di rifarsi una verginità e di far dimenticare tutto ciò che si è combinato in precedenza e specialmente dal 2011 in poi, dapprima con l’appoggio al governo Monti e in seguito a quelli guidati, via via, da Renzi, da Gentiloni, da Conte, da Draghi. Sempre dalla parte dell’establishment di Bruxelles. Sempre a trincerarsi dietro l’alibi del “ce lo chiede l’Europa”.

Oplà. Con il nuovo corso, in teoria, si dovrebbe azzerare il passato e dare inizio a una ritrovata credibilità. Su vasta o vastissima scala. Pescando a piene mani da una parte e dall’altra. Di qua si torna ad attrarre il consenso di vaste masse popolari, inebriate dalle redivive promesse di tutela e di riscatto. Di là si conserva, e magari si accresce, quello che si aveva già.

Ma è un calcolo superficiale e presuntuoso. Per non dire truffaldino. Se davvero si volessero invertire le tendenze del mercato del lavoro e disinnescare gli altri fattori che generano gli squilibri sociali, sarebbe indispensabile rimettere in discussione l’intero assetto liberista. Un ripensamento profondo, e drastico, di cui nel PD e dintorni non c’è nemmeno l’ombra.

La vera accelerazione è quella già in atto. Gli obiettivi verso cui si spinge sono l’immigrazione di massa che mira a instaurare una società multietnica, a scapito di chi è italiano da molte generazioni, e l’ulteriore allargamento dei “diritti civili”, sempre più estremizzati sul versante LGBTQ, sulle famiglie omogenitoriali, sulla maternità surrogata e via di questo passo. Questioni delicatissime riguardo alle quali, nonostante la propaganda a getto continuo di tanti media mainstream, gran parte della popolazione non è disposta ad assecondare le tendenze più oltranziste.

La libertà piace a tutti. L’anarchia morale, per fortuna, trova ancora vaste schiere di oppositori. Persino tra i cosiddetti moderati.

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