Studenti a disagio. Ma la cura non è blandirli (e illuderli) 

Di Gerardo Valentini

Ragazzi che cambiano scuola durante l’anno, con numeri in aumento. E parliamo delle superiori, ivi inclusi licei di gran nome come il Berchet di Milano, ubicate in svariate città italiane. 

Oppure, se anche non arrivano ad abbandonare gli istituti ai quali sono iscritti, sperando di trovare condizioni migliori altrove, affermano di sentirsi profondamente a disagio, fino a un malessere costante. Pressati dai carichi di lavoro dello studio e stressati, o persino angosciati, dalle valutazioni dei professori.

“L’ansia – ha titolato in prima pagina Repubblica, nell’edizione di giovedì scorso – devasta i ragazzi”. I motivi? Nell’articolo venivano focalizzati così. 

Premessa: «Stiamo tutti male — affermano dal collettivo del Minghetti [uno storico liceo classico di Bologna, ndr] — la maggior parte degli alunni qui  è in cura da psicologi». Conclusione: “Tutta colpa, secondo gli studenti, di un sistema scolastico che punta troppo sul merito, non solo alle superiori ma anche all’università. E qui il riferimento è alla tragedia della studentessa della Iulm, che si è tolta la vita a inizio febbraio”.

Ovvio. Trattandosi di Repubblica la sottolineatura riguardo al merito rientra nell’abituale strategia di attacco, o di demonizzazione, contro il Governo Meloni. Eppure, al netto delle forzature polemiche, il ragionamento può partire proprio da questo: il problema della valutazione da parte degli insegnanti. Sia in termini di profitto specifico, nelle diverse materie, sia in riferimento alle attitudini di carattere più generale. 

Detto in sintesi, di qua il rendimento, di là l’atteggiamento. Da una parte ciò che viene fatto, o non fatto, lungo il percorso scolastico. Dall’altra la mentalità, la personalità, che va emergendo e che, per quanto tuttora in formazione, si avvia a essere quella che accompagnerà l’individuo nel prosieguo della sua vita.

A cominciare, si intende, dal mondo del lavoro.

Imprese accoglienti e benevole? Non proprio.

La globalizzazione – ce l’hanno detto e ripetuto in tutte le salse – ha dato il via a una competizione molto più serrata e senza esclusione di colpi, in cui il preesistente primato occidentale è già drasticamente scosso e destinato a diventare un lontano ricordo. Il moltiplicarsi dei soggetti in gioco, dagli Stati alle aziende, ha fatalmente investito anche i lavoratori, risucchiandoli in dinamiche altrettanto esasperate: precarizzazione dei contratti, necessità di continuo aggiornamento, il rischio incombente di essere accantonati/licenziati a vantaggio di qualcun altro che è (o è ritenuto) più efficiente e funzionale.

Una tendenza ormai permanente che d’ora in avanti non potrà che accentuarsi. Vedi, in particolare, l’avvento dell’Intelligenza Artificiale in un numero crescente di ambiti, ben al di là dei macchinari industriali e di quei compiti manuali, più o meno elementari, che possono essere svolti dai robot. Robot i quali, peraltro, verranno affiancati o sostituiti dagli androidi, con capacità di decisione ed esecuzione enormemente potenziate.

Stando così le cose, è del tutto lampante che la Scuola non può non tenerne conto. Dandosi come finalità essenziale, accanto al trasferimento di cognizioni accademiche e alle normali occasioni di vita relazionale con i compagni e i docenti, quello di preparare gli studenti a un proficuo inserimento nella vita adulta.

Ovvero, sgombrando il campo da qualsiasi ipocrisia, l’obiettivo imprescindibile di fortificarli in vista della dura lotta che li attende e alla quale, verosimilmente, non potranno sottrarsi. In una parola, temprarli. Il che, evidentemente, attiene assai più alla sfera del carattere che non alla mera acquisizione, pur indispensabile, di nozioni astratte o di abilità operative.

Negare questa esigenza è gravissimo. Perché significa ingannare le nuove generazioni, illudendole che il criterio fondamentale che potranno utilizzare, una volta usciti dal mondo relativamente protetto della Scuola, sia la sensazione di essere trattati nel modo che desiderano. E che più gradiscono.

Piaccia o non piaccia, non è così.

Al pari di ciò che è necessario con i figli, quindi, l’educazione scolastica deve amalgamare numerosi fattori. Se è vero che il clima psicologico deve essere improntato al rispetto e all’affetto, verso questi giovani che sono il nostro futuro e che stanno attraversando l’età obiettivamente difficile dell’adolescenza e della giovinezza, lo è altrettanto che bisogna abituarli a fronteggiare anche gli aspetti meno piacevoli e meno rassicuranti. 

Gli errori commessi non sono un’infamia, ma i segnali di una carenza che si manifesta e che potrà essere colmata. Oppure accettata, quando sia rivelatrice di un’attitudine che si credeva di avere ma che in effetti non si possiede. 

I voti, e gli esami, non costituiscono un affronto alla propria dignità, ma più semplicemente degli indicatori dei risultati che si è stati in grado di raggiungere. Certo: nel quadro di modalità e di criteri che non si sono scelti, e che per più di un verso potranno essere opinabili e talvolta addirittura sbagliati, ma che prefigurano le situazioni concrete e i vincoli con cui ci si dovrà misurare da adulti.

Diciamolo in chiave sportiva: un bravo allenatore ti può affinare al meglio delle tue potenzialità tecniche, ma poi in campo, o addirittura sul ring, devi andarci tu.

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