Crisi bancarie: tutt’altro che finite. Perché i vizi sono di sistema

Di Gerardo Valentini

Ricostruzioni giornalistiche? Quante ne vuoi. Per elencare che cosa è andato storto nella gestione di una banca relativamente piccola come la Silicon Valley Bank, nei lontani Stati Uniti, e che cosa altro ha messo in crisi, nella vicina Svizzera, un colosso del settore creditizio come il Credit Suisse. E già su questo aggettivo, “creditizio”, bisognerebbe fermarsi a riflettere: ma lo faremo più avanti.

Rimaniamo sui resoconti pubblicati in questi giorni. Sui toni che quasi sempre non vanno al di là di un rammarico a scartamento ridotto. E sulle analisi che si fermano alle dinamiche in atto. Omettendo, salvo rare eccezioni, di risalire alle cause che hanno innescato i tracolli già avvenuti e gli altri che si annunciano come incombenti. O meglio: tali cause vengono magari enumerate, ma senza mai arrivare a definirle per quello che sono. Non già dei semplici errori di funzionamento, agevolati da talune sviste normative, bensì dei vizi costitutivi. 

La versione di gran lunga prevalente è di segno opposto: ogni tanto, ohibò, il meccanismo si inceppa, ma ciò non vuol dire che lo si debba fermare, ripensandone a fondo i metodi e gli obiettivi. Tutt’al più, suvvia, si apporti qualche correttivo che ne mantenga le performance riducendo, se possibile, i rischi di andare a gambe all’aria.   

Il 14 marzo scorso, ad esempio, sul Corriere della Sera Francesco Giavazzi (il “solito” Francesco Giavazzi) firma un articolo/editoriale che si intitola “Una scossa, tre lezioni” e ci spiega che la terza lezione è la seguente: “la volatilità è una caratteristica dei mercati finanziari. Questi vanno sorvegliati, ma tentare di cancellarne la volatilità sarebbe un errore perché significherebbe porsi l’obiettivo di azzerare il rischio che è un aspetto essenziale dell’innovazione”.

Il vecchio “laissez faire” del Settecento, in pratica. Chi campa campa, chi crepa crepa. E pazienza se i vantaggi sono dei finanzieri senza scrupoli mentre il prezzo dei loro errori lo paga qualcun altro.

Giavazzi non è Tremonti. Giavazzi è la regola, Tremonti l’eccezione. Giavazzi celebra il sistema, Tremonti lo contesta.  

«La crisi del 2008 – afferma l’ex ministro dell’Economia in un’intervista apparsa ieri sul quotidiano La Stampa – non è mai finita. Siamo passati dall’austerity alla liquidity. Con il risultato che la massa monetaria non si contabilizza più in miliardi, ma in trilioni e vale tre volte la ricchezza economica globale. Oggi la situazione è più grave di 15 anni fa». 

Sistema sì. Creditizio non proprio

Lo avevamo anticipato. Bisogna fermarsi a riflettere su questo aggettivo che viene ripetuto in modo automatico, o pappagallesco, e fuorviante.

Bisogna chiedersi quanto il termine “creditizio” sia ancora corrispondente alla vera natura degli istituti ai quali viene attribuito in blocco. E quanto, invece, sia ormai ridotto a un’etichetta di routine che nasconde – che continua a nascondere – lo spostamento dell’asse portante delle loro attività verso gli azzardi in campo finanziario. 

C’è una differenza enorme, infatti, tra prestare denaro alle imprese e ai cittadini, allo scopo di aiutarli a crescere e a consolidarsi, e inondare di capitali gli operatori/scommettitori delle Borse e affini. 

Nel primo caso si concorre a irrobustire la società nel suo insieme, sostenendo il circolo tendenzialmente virtuoso che collega la produzione di beni e servizi alla distribuzione del reddito attraverso il lavoro e, di conseguenza, al soddisfacimento di bisogni reali per mezzo degli acquisti. 

Nel secondo, al contrario, si alimenta sempre di più, sino a degenerare in una bulimia irreversibile, un circuito frenetico di operazioni artificiose. Di cui i cosiddetti “derivati” sono forse l’esempio più smaccato, ma di sicuro non l’unico. E certamente non l’ultimo.

Una lotta senza esclusione di colpi, e di colpi bassi, che porta di continuo al formarsi delle famigerate e citatissime bolle speculative. Come anche, e forse soprattutto, ai tanti altri fattori di squilibrio e di instabilità che vengono creati appositamente per lucrare sulle oscillazioni dei listini. 

Distorsioni per nulla accidentali delle quali non si parla a sufficienza. E di cui, vuoi per assuefazione passiva, vuoi per consapevole opportunismo, ci si guarda bene dal cogliere, dal sottolineare, dal denunciare, il vizio d’origine: questi processi, spasmodici e sempre più posticci, non sono affatto nell’interesse generale delle società. Ovvero dei popoli. Ovvero di noi cittadini qualsiasi che aspiriamo a un benessere ragionevole e a un quadro socioeconomico sano e forte, in cui poter riversare i nostri sforzi e confidare che, così facendo, realizzeremo le nostre aspettative.

No, non siamo e non vogliamo essere “i lupi di Wall Street”

Ma non siamo nemmeno disposti a rimanere le pecorelle portate al macello da una finanza dissennata e famelica, che i media non attaccano come dovrebbero. E che la massima parte della politica ha rinunciato a combattere.

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