“IUS SCHOLAE”: IL NOME È NUOVO, IL TRUCCHETTO È VECCHIO

di Gerardo Valentini

Hanno cambiato l’etichetta sulla scatola. Di nuovo. Da Ius Soli si era passati a Ius Culturae. E adesso c’è la terza versione: Ius Scholae. Che in effetti è all’incirca la stessa cosa dello Ius Culturae. Con quello stesso tocco di latino che mira a dare una lucidatina alla superficie. Così l’ottone sembra oro. Così si dà l’impressione che vi sia un legame profondo con la nostra antichissima tradizione giuridica che ha inizio con il Diritto romano. 

La verità è agli antipodi, invece. La verità è che la logica dell’operazione – della mistificazione – è quella tipica del mondo contemporaneo. Globalizzato. Dove le “ragioni” dell’economia prevalgono massicciamente sulle identità nazionali e tendono a dissolverle, riducendole a usanze folcloristiche: una spruzzata di preferenze locali affondate nel mare magno del consumismo planetario. Carina, la Festa de Noantri. Ma giusto per quelle due settimane di luglio. Nel resto dell’anno, please, trastullatevi coi social. E compratevi il nuovo smartphone.

La prospettiva è questa. E in questa chiave va osservato, interpretato, affrontato, il fenomeno dell’immigrazione di massa. Da cui discende, fatalmente, quello della concessione della cittadinanza a chi proviene da tutt’altre culture. Ivi incluso chi magari è nato qui in Italia, o ci è arrivato da bambino, ma porta ugualmente con sé, e dentro di sé, l’impronta delle realtà da cui proviene. Realtà lontane e oggettivamente diverse. Diverse, spesso, fino all’estraneità. Fino all’incompatibilità. 

A proposito: bisogna distinguere con la massima attenzione tra due casi del tutto diversi. Il primo è quello dei singoli individui, e dei loro specifici e limitati nuclei familiari, la cui integrazione è facilitata dal fatto che si ritrovano “da soli” in un contesto differente che li avvolge e, avvolgendoli, li incentiva ad adottare nuovi modi di pensare e di vivere. Il secondo, assai più problematico, è quello dei gruppi etnici più vasti che si trapiantano in un altro Paese e che, forti del loro numero e delle reciproche frequentazioni, sono portati a rimanere uguali a ciò che erano all’origine. Costituendo perciò dei corpi separati all’interno del tessuto sociale.

Che il problema esista è innegabile. E chi lo nega, o lo sottovaluta, è accecato. O da un pregiudizio di stampo ideologico, oppure dalla malafede. 

Oplà: tutti italiani

La soluzione, a sentire i fautori dell’Integrazione-rapida-e-universale, verrebbe da sé: dopo un po’ di anni che uno è rimasto in una certa nazione, ne avrà assorbito i costumi e quindi, voilà, si sarà amalgamato agli autoctoni fino a diventare un tutt’uno. Un nuovo cittadino, in pratica. 

Ma questa non è una soluzione. È un automatismo. È un dogma. Al quale si attribuisce, in modo appunto dogmatico, un’efficacia che al contrario è tutta da dimostrare.

L’obiettivo originario era introdurre lo Ius Soli: se sei nato qui, sei cittadino per diritto di nascita. Il luogo del parto che sostituisce ogni altro criterio. Che cancella ogni altra possibilità di verifica. Alla faccia del buon senso: come è stato giustamente osservato, se un cane viene alla luce in una stalla, non per questo diventerà un cavallo. 

Naufragata, per fortuna, questa scempiaggine, è partita la corsa a un trucco alternativo. Che era lo Ius Culturae: se per alcuni anni frequenti dei percorsi formativi, scolastici o di altro tipo, se ne deduce che sei pronto per ottenere la cittadinanza. 

Infine, per rendere la procedura ancora più agevole – e più automatica – ecco l’ultima versione. Lo Ius Scholae. Cinque anni di scuola, che di regola stanno a significare le elementari, e non serve altro.

Ma è davvero così? Davvero è sufficiente frequentare le elementari? Le elementari come sono oggi, come le hanno fatte diventare, quelle in cui la promozione è pressoché garantita e dove c’è poco o nulla di mirato a rendere gli alunni consapevoli della loro specifica “italianità”?

Siamo al punto chiave, accanto a quelli di matrice economica. Invece di affrettarci a concedere la cittadinanza agli stranieri, dovremmo chiederci che cosa stiamo facendo per rinsaldare, in noi stessi e nei nostri figli, la coscienza e l’orgoglio del nostro essere italiani. 

O è troppo nazionalista, questo?