Regionali nel Lazio. Ma dai, D’Amato: ancora con la storiella del “voto utile”?

di Gerardo Valentini

Domenica scorsa, all’interno di “Mezz’ora in più”, il programma di Lucia Annunziata su Rai 3. 

La parte centrale è dedicata a un incontro-dibattito fra i tre principali candidati alla successione di Nicola Zingaretti ai vertici della Pisana. C’è il super favorito Francesco Rocca, della coalizione di centrodestra a fortissima trazione FdI. C’è Donatella Bianchi, la outsider scelta dal M5S in versione Giuseppe Conte. E c’è Alessio D’Amato, assessore uscente alla Sanità e candidato del PD, nonché di un mazzetto di altri partiti e partitini tutt’altro che omogenei. Uno strano contorno – vedremo quanto ricco, o quanto inconsistente – che va da Azione e Italia Viva ai Verdi Sinistra e ad altri ancora.

D’Amato, poverino, sprizza insicurezza da tutti i pori. Sa di essere parecchio indietro nei sondaggi e sa ancora di più che il suo PD è sprofondato in una crisi, di identità e di legittimazione, da cui chissà quando e come uscirà. Probabilmente, maledice le circostanze che lo hanno portato alla sfida nel momento peggiore: invece di avere il vento in poppa, dopo dieci anni di governo regionale, si ritrova con le vele a brandelli e lo scafo che imbarca acqua.

Così, in mancanza di meglio, prova a sciorinare la sua modesta mercanzia. Rivendica i “successi” nella gestione del Covid. Ci aggiunge il fatto di essersi lasciati alle spalle, nel 2020, i dodici anni di commissariamento proprio nel suo settore di competenza, la Sanità regionale. Sbandiera la volontà di introdurre un “reddito di formazione” per supplire al venir meno di quello “di cittadinanza”. 

Non un granché, vero?

Lui dà l’impressione di rendersene conto. Ma com’è ovvio non può ammetterlo. 

E allora, a un certo punto, gioca l’ultima carta possibile. Proclamando di essere l’unico in grado di contendere la vittoria a Francesco Rocca, si appella al Solito Vecchio Trucco: il “voto utile”. 

Ognuno voti pure il partito che vuole, ma come presidente scelga lui. Pragmatismo, oh yes. Ma poco ci manca che Donatella Bianchi gli rida in faccia. Mentre Rocca, lesto a prendere la palla al balzo, gli lancia un monito sarcastico: “Occhio, che arrivi terzo”.

Lo spauracchio delle Destre

Un vecchio trucco, appunto. Collaudato per un verso e ributtante per l’altro. Un espediente che poggia su una pseudo logica: c’è un nemico-babau da fermare e quindi, per evitare che possa vincere, bisogna creare delle coalizioni allargate. Se poi sono posticce, pazienza. 

E se proprio non ci si riesce, a metterle in piedi in maniera ufficiale, ecco scattare il piano B: si chiede agli elettori di fare di necessità virtù (virtù, sic) e di sacrificare l’affinità al pragmatismo. Anziché votare il partito o il candidato in cui si riconoscono di più, li si invita a concentrare i loro suffragi su chi abbia maggiori probabilità di arrivare alla maggioranza relativa. 

Chiaro, no? Si semina l’allarmismo per nascondere l’opportunismo. 

Incapaci di vincere in proprio, ci si appella a una sorta di “ragion di Stato”: bando alle differenze, per quanto cospicue possano essere, e si serrino le file. Tutti insieme affinché non trionfino gli odiati avversari. 

Nell’Italia della Seconda Repubblica, e più in generale nell’Europa occidentale a cominciare dalla Francia, il nemico-babau sono le Destre. Che, notoriamente, sono dei fascisti travestiti da democratici. E che perciò vanno fermati con ogni mezzo.

Per oltre vent’anni, qui da noi, lo spauracchio è stato Silvio Berlusconi. Poi, per molto meno tempo, è diventato Matteo Salvini. Adesso, infine, il ruolo spetta di diritto a Giorgia Meloni, che si è formata nelle file di Alleanza Nazionale e che insieme ai suoi Fratelli d’Italia ha fatto incetta di voti nelle Politiche dello scorso settembre, continuando inoltre a godere di un larghissimo seguito nei sondaggi. 

PD & C. dovrebbero capirlo, finalmente e una volta per tutte: la demonizzazione delle Destre è un artificio che ha fatto il suo tempo. Ostinarsi a replicarlo non è solo pretestuoso. È grottesco.

Nel momento in cui non è più spendibile la messinscena dei “Turchi alle porte di Vienna” – ovvero degli squadristi all’assalto del Quirinale, del Parlamento e della Costituzione – si farebbe assai meglio a capire che la vera battaglia da affrontare è quella di una rigenerazione dello stesso PD. Ammesso e non concesso che sia possibile.

Si occupino del proprio degrado, che è enorme. E di come evitare che il M5S gli porti via gran parte dei sostenitori o dei semplici simpatizzanti. Donatella Bianchi, sempre domenica scorsa, lo ha detto a chiare lettere: «Non saranno certo gli elettori del Movimento a votare il Pd. Anzi, semmai sarà il contrario». 

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