Regionali del Lazio: prima si vota, meglio è

di Gerardo Valentini

Vinta una battaglia… ne comincia un’altra. Vinte, o stravinte, le Politiche di domenica scorsa, il Centrodestra va incontro alle Regionali del prossimo anno. Cinque appuntamenti complessivi che riguardano due regioni a statuto speciale, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia, e tre a statuto ordinario, Lombardia, Lazio e Molise. 

Quelle del Nord sono a guida leghista (Attilio Fontana, Maurizio Fugatti e Massimiliano Fedriga), mentre il Molise è affidato a un esponente di Forza Italia (Donato Toma) e il Lazio, infine, è l’unica governata da una giunta di centrosinistra, capitanata da Nicola Zingaretti. Il quale Zingaretti, però, è stato appena eletto alla Camera, rendendo perciò vacante il posto di presidente con quasi sei mesi di anticipo rispetto allo spirare naturale della consiliatura, che era fissato a marzo del prossimo anno.

La conseguenza è evidente, ma è bene sottolinearla. Qui nel Lazio le elezioni devono essere anticipate. E, aggiungiamo noi, va fatto al più presto. Senza rifugiarsi nelle disposizioni prettamente tecniche che consentono di dilazionare il più possibile gli adempimenti, sino ad arrivare al febbraio 2023. Ossia ad appena un mese dall’epilogo ordinario. 

Al di là di ciò che consentono le norme, infatti, Zingaretti dovrebbe rassegnare le dimissioni immediatamente – essendo certo che rientri fra i nuovi deputati e che sia determinato ad accettare la nomina – anziché attendere tutti i sessanta giorni che costituiscono il termine massimo. Di per sé sarebbe un atto quasi ovvio di responsabilità, a tutela dei cittadini laziali e a fronte delle tante ed essenziali questioni da affrontare. Ma il dubbio, per non dire la certezza, è che invece l’uscita di scena del “fratello sbagliato di Montalbano” venga posticipata sino all’ultimo, per motivi tutti interni al Centrosinistra.

Motivi. Anzi, calcoli.

“Campo largo, salvaci tu”

L’obiettivo, dopo la batosta a livello nazionale, è palese: trovare una qualche forma di ricompattamento, intorno a quell’idea di “campo largo” che era stata avanzata/strombazzata come una panacea. Ma che poi era naufragata, miseramente, sulle rispettive rigidità e i rispettivi egocentrismi, per nulla rispettabili, dei vari leader o sedicenti tali. 

Letta e Calenda, in primis. E a congrua distanza Luigino Di Maio. Anche se oggi, consci di come il verdetto delle urne lo abbia spazzato via restituendolo alla sua condizione iniziale, e naturale, di perfetto sconosciuto che può rappresentare sì e no sé stesso, la sua levata di scudi con la secessione dal Movimento 5 Stelle e la creazione dello pseudo partito “Impegno civico” facciano sorridere. O sogghignare.

Sia come sia, la debacle appena subita ha già riattizzato le mire dei sostenitori del “tutti insieme”. Come riferisce l’Agenzia Nova, lo stesso Zingaretti ha scritto su Facebook che bisogna recuperare quell’approccio già a partire “dalle prossime amministrative e Regionali tornando a uno spirito aperto. Cerchiamo tutti l’unità, il confronto per costruire e vincere e non la frammentazione”. Il segretario del Pd Lazio, Bruno Astorre, gli dà manforte. Anch’egli su Facebook. Dove ha pubblicato un post in cui somma i voti raccolti dalla lista Democratici e Progressisti (26,13 %) con quelli del M5S (17,74) e di Azione-Italia Viva (8,54). Risultato: “Modello Lazio 49,41 per cento, centrodestra 44,90 per cento”. Conclusione – apparentemente oggettiva, con le sue addizioni da quarta elementare, ma in realtà ottimistica –  “uniti si può vincere”.

La questione, va da sé, è parecchio più complessa. Intanto, è tutto da dimostrare che quella “lieta rimpatriata” si realizzi davvero. Se un tipo pragmatico come Giuseppe Conte potrebbe anche addivenire a un accordo di coalizione, salvo mettere dei paletti ben precisi e poi tenerseli stretti, un caratterino alla Calenda appare talmente inebriato da sé medesimo da anteporre il proprio ego a qualsiasi altra considerazione. 

Ma il punto chiave, checché ne pensino nel PD e dintorni, è il modo in cui il Centrodestra attraverserà i prossimi mesi. Ciò che verrà fatto in Parlamento e a Palazzo Chigi, come pure i rapporti interni tra le diverse componenti e le relative manifestazioni mediatiche, andrà a incidere sull’immagine pubblica dell’intera coalizione.

Lo si dovrà avere ben presente: la crescita o meno del consenso locale passa anche da lì.