Parola d’ordine: santificare la UE. Per chi ci crede

Di Gerardo Valentini

Lo si è visto anche stavolta. Per l’ennesima volta.

Il governo Meloni mette in discussione l’aumento dei tassi di interesse da parte della BCE, continuando inoltre a rinviare la ratifica del MES, e piovono le solite accuse scandalizzate: come se qualsiasi divergenza, rispetto ai vertici UE, fosse non solo sbagliata ma addirittura inconcepibile. 

Sbagliata nel merito delle questioni specifiche. Inconcepibile perché osa ribellarsi alle autorità politiche di Bruxelles. O a quelle finanziarie di Francoforte.

Una sorta di ammutinamento. Di lesa maestà. Di attentato all’unità europea,  in antitesi non solo alle attuali linee guida ma persino ai suoi valori fondanti. I quali, si intende, sono i capisaldi incrollabili del Bene, della Democrazia, della Società Liberale (e progressista).

La premier Giorgia Meloni durante il convegno organizzato dal governo in occasione della ‘Giornata mondiale contro le droghe’, Camera dei Deputati, Roma 26 giugno 2023. ANSA/FABIO FRUSTACI.

Il rischio paradossale, come spesso accade, è che di fronte al persistere di questo atteggiamento a senso unico si crei una assuefazione che porta a sottovalutarlo. Nascondendone la gravità. Ossia i veri motivi. 

Oggi, per di più, tale rischio è accentuato dalla crisi di consenso che colpisce i partiti “di opposizione” e che si estende ai loro abituali fiancheggiatori nell’ambito dei media. E anche qui si tratta di un effetto paradossale: perché proprio quella debolezza, che negli ultimi mesi sembra non già un calo momentaneo ma un tracollo definitivo, può indurre a convincersi che non valga la pena di ragionare più a fondo sulle vere cause di un ostracismo così assiduo e sprezzante.

Laddove, invece, quelle cause ci sono eccome. E sono precise.

Ubbidienti e ossequiosi. Persino grati

La domanda da cui bisogna partire è molto chiara, anche se di solito ci si guarda bene dal formularla. E, quindi, dal darle risposta.

La domanda è questa: per quale motivo, in caso di divergenza con i vertici UE, un certo mondo politico e mediatico dà per scontato che siamo noi italiani ad avere torto?

La risposta è altrettanto nitida. Lo scopo è instaurare dei vincoli sempre più stringenti e inderogabili tra le scelte nazionali e quelle comunitarie. A scapito delle prime. Riducendo al minimo, e poi escludendo del tutto, la possibilità che in un singolo Paese emergano, si rafforzino, si affermino, delle concezioni non allineate ai modelli preferiti dall’establishment che detiene il potere. 

I metodi che vengono seguiti, per arrivare a questa subordinazione definitiva e insormontabile, sono di varia natura e per indagarli a fondo servirebbe uno spazio ben più ampio di questo. Uno dei fili conduttori principali, però, lo possiamo fissare senz’altro: è diffondere la convinzione che la guida comunitaria sia di gran lunga più qualificata e affidabile di qualsiasi classe dirigente nostrana. 

Ergo, sarebbe non solo proficuo ma doveroso che noi italiani (così come i cittadini di qualunque altro Stato membro) rimaniamo allineati a ciò che viene deciso dagli organismi capeggiati dalle von der Leyen e dalle Lagarde, di turno. Nel presupposto che chiunque di loro sia più competente, più coscienzioso, più lungimirante, etc. etc.

Voilà. Il presupposto si tramuta in un dogma. Come se la carica rivestita fosse di per se stessa una garanzia di qualità, sia professionale sia etica. Uno status che rende irrispettose le perplessità e superflui i giudizi. Tanto sulle attività quanto, e soprattutto, sulle logiche da cui esse discendono.

E questo, finalmente, ci porta al cuore del problema.

A differenza di ciò che si vuole far credere – in quella chiave tecnocratica che mira a far passare per oggettiva qualunque decisone, specie in campo economico – l’odierna gestione della UE si basa su una visione particolare. Che in quanto tale può essere condivisibile o no, accettata o rifiutata in tutto o in parte, ma che di sicuro non va spacciata per un insieme di verità cristalline e insindacabili. 

Ancora prima di essere valutata, perciò, essa deve (deve!) essere esplicitata. Non solo e non tanto nelle sue affermazioni di principio, che come accade anche nei peggiori regimi sono altisonanti e meravigliose, quanto nei suoi cardini socioeconomici e negli assetti che ne derivano. In modo tale che se ne possano davvero contemplare le premesse, identificare le tattiche e le strategie, ponderare i pro e i contro degli obiettivi di breve, medio e lungo periodo. 

Per esempio: fatta salva l’impostazione liberale dei rapporti economici, è realmente indispensabile lasciare così tanto spazio alla speculazione finanziaria?

E ancora: che impatto ha sulla vita dei cittadini europei “autoctoni” l’arrivo massiccio o persino esorbitante dei cosiddetti migranti? La vagheggiata integrazione è una possibilità concreta e onnicomprensiva o è piuttosto un alibi per eludere i problemi reali, vedi le banlieue di Parigi e le tante altre aree di marginalità in cui serpeggiano tensioni analoghe e mai risolte?

Tutte questioni su cui vorremmo risposte chiare, al posto dei soliti auspici. A cominciare dall’aspetto fondamentale: l’economia tanto cara alla BCE serve a concentrare la ricchezza nelle mani di pochi o a distribuirla tra la generalità della popolazione?

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