Macron versione slalom: su Taiwan, sugli USA, sulla UE

Di Gerardo Valentini

Minimizzare? Proprio no. 

Nell’intervista pubblicata ieri dal Corriere della Sera EmmanuelMacron ha espresso delle posizioni talmente disallineate, rispetto all’impostazione ufficiale della UE, da non poter essere ignorate. O anche solo sottovalutate.

A proposito: se le stesse cose fossero state dette da esponenti considerati di estrema destra, come Giorgia Meloni o, per rimanere in Francia, Marine Le Pen, non c’è dubbio che la stampa progressista avrebbe aperto il solito fuoco di fila, gridando al sovranismo e all’antieuropeismo. E sbattendo il tutto in prima pagina.

Nel caso di Macron, invece, ci si limita a commenti che quand’anche critici sono di gran lunga più misurati e che, non a caso, vengono collocati nelle pagine interne. Niente requisitorie, ma semplici riepiloghi di ciò che è troppo palese per poterlo negare. Vedi le dure reazioni suscitate dalle parole del presidente francese, a cominciare dalla Commissione UE e dai politici tedeschi, sia di governo sia di opposizione, che non hanno gradito (eufemismo) il modo in cui lui ha trattato Ursula von der Leyen durante la visita che entrambi hanno appena fatto a Pechino. Anziché muoversi di comune accordo, Macron si è ritagliato uno spazio a sé tenendo colloqui separati con Xi Jinping. 

Poi, durante il viaggio aereo di ritorno, ha rilasciato appunto l’intervista pubblicata sul Corriere. Nella quale, partendo dalla questione di Taiwan e delle pretese di Pechino di riassorbirla a pieno titolo nel territorio cinese, si è spinto molto, molto oltre.

A che gioco stai giocando, monsieur le President?

«Gli europei – sostiene Macron – devono trovare risposta a questa domanda: è nel nostro interesse precipitare la crisi di Taiwan? No.La cosa peggiore sarebbe proprio quella di pensare che noi, europei, dobbiamo accettare le consegne altrui su questo argomento e seguirele indicazioni fornite dall’America, provocando una reazione spropositata da parte della Cina».

Nel prosieguo alza ulteriormente il tiro: «Se le tensioni tra le due superpotenze dovessero aggravarsi… noi non avremmo né il tempo necessario né le risorse per finanziare la nostra autonomia strategica e saremmo ridotti al ruolo di vassalli». Una sottolineatura, quest’ultima, che diventa ancora più significativa – e più potenzialmente esplosiva – quando la si leghi all’altro passaggio in cui si legge che il presidente francese “ha inoltre suggerito chel’Europa dovrebbe ridurre la sua dipendenza dalla extraterritorialitàdel dollaro statunitense”. 

Sia chiaro: il ragionamento di Macron è tutt’altro che infondato, specie per quanto riguarda i rapporti con gli USA. Che questi rapporti siano improntati a una sostanziale subordinazione, per non dire a una sottomissione assoluta, è un dato di fatto lampante e comprovato da innumerevoli episodi. Dietro le definizioni ufficiali, e diplomatiche, e ipocrite, che si ostinano a parlare di “alleati”, l’amara verità è che a Washington si decide e qui in Europa si esegue. Perpetuando a oltranza il «ruolo di vassalli» di cui parla Macron e limitando gli sprazzi di indipendenza ad ambiti marginali o comunque non strategici.

Assodato questo, però, cominciano i dubbi. Non sulla questione in sé stessa, ma sul perché il presidente francese la abbia sollevata. Vale a dire sui motivi, e sui calcoli, che l’hanno indotto a fare questa mossa. 

Lui, accortamente, fa riferimento a un interesse generale dell’intera UE a smetterla di appiattirsi sulle indicazioni/diktat degli USA. Ma è davvero così? O si tratta invece dell’ennesima manovra con cui la Francia mira a perseguire dei fini suoi propri, ritenendoli prevalenti, e prioritari, rispetto a quelli degli altri partner europei?

I precedenti non mancano. E legittimano i peggiori sospetti. O meglio: i più circostanziati sospetti, da tradurre in richieste perentorie di chiarimento. Non certo a mezzo interviste, delle quali si può sempre eccepire il fraintendimento del giornalista di turno, ma attraverso dichiarazioni ufficiali. 

Se Macron ha realmente l’intenzione di porre il problema dell’assoggettamento sistematico a Washington, e più che mai allo strapotere del dollaro come valuta di riferimento del commercio mondiale, che lo faccia nelle sedi competenti e al più alto livello. 

Davanti ai fondamenti stessi dell’egemonia americana non c’è alcuno spazio per le sortite occasionali e i tentativi di lucrare qualche vantaggio tattico. O li si affronta davvero, assumendosi appieno la responsabilità di ciò che ne deriverà, oppure è doveroso tacere.  

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