IL REFERENDUM È FALLITO. IL DEGRADO DELLA GIUSTIZIA RESTA

a cura di Gerardo Valentini

A muso duro: qual è la percentuale degli italiani che sanno esattamente cos’è il CSM e qual è, al suo interno, la differenza tra i membri togati e quelli laici?

Chiaro: è soltanto un esempio. Perché la stessa questione andrebbe posta per gli altri quattro quesiti del referendum che si è svolto domenica scorsa. E per tantissimi di quelli che si sono tenuti in passato. O che si terranno in futuro.

Ne abbiamo parlato anche lunedì. Il linguaggio con cui sono formulati è per forza di cose lo stesso con cui vengono scritte le norme che si vorrebbero abrogare. Un linguaggio tecnico che va bene per gli esperti ma che risulta poco o per nulla comprensibile a chi esperto non è. 

È qui, il nodo.  

Se io cittadino non ho ben chiara la questione su cui mi viene chiesto di esprimermi, e se quindi non la sento come una cosa “vera” e che mi riguarda, non sono motivato a occuparmene. 

Il Decreto Severino? La separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e requirenti? Gli “abusi” della custodia cautelare di cui al’art. articolo 274, comma 1, lettera c del D.P.R. 22 settembre 1988, n. 447 (Approvazione del codice di procedura penale)? 

Boh, ma che ne so. 

E se non lo so, lascio perdere.

Comprensibile, sul piano personale. Ma sbagliatissimo, e dannoso, su quello collettivo. Collettivo. E democratico.

La democrazia è partecipazione. È responsabilità. È occuparsi anche, o soprattutto, di quello che ci appare distante: perché se non ce ne occupiamo noi, se ne occuperà qualcun altro. Più o meno a nostra insaputa. E assai probabilmente non proprio a nostro vantaggio.

Ralph Nader, candidato outsider alle Presidenziali USA a cavallo tra gli anni Novanta e i Duemila, lo disse con una frase che è diventata celebre e che estende il concetto all’intero rapporto tra cittadini ed eletti: “se non ti occupi di politica, sarà la politica ad occuparsi di te”.

Cantiere Italia è nato proprio per questo: attivare quante più persone possibile per riuscire, tutti insieme, a incidere sulle decisioni dei governanti. Aiutandoli a suon di suggerimenti, quando siano disponibili ad ascoltarli. Pungolandoli a forza di proteste o persino di denunce, se faranno finta di non sentire.

Il referendum è un istituto sacrosanto, ma è un rimedio eccezionale. Che attesta, di per sé, che i politici “di mestiere” non stanno dando risposte soddisfacenti a qualcosa di importante.

Come in questo caso: molti italiani potranno anche non sapere cosa sia il CSM eccetera, ma per dritto o per storto sanno che la magistratura (vedi il caso Palamara, tra l’altro) è uno spaventoso groviglio di fazioni e di inefficienze, in cui ci saranno anche delle ottime persone ma dal quale, nell’insieme, si può solo sperare di rimanere alla larga. 

Nel febbraio scorso il Corriere della Sera, a margine di un sondaggio sul tema, riassumeva così: “se negli anni 90 i giudici erano considerati eroi popolari e godevano del consenso di oltre nove cittadini su dieci, oggi solo uno su tre (32%) dichiara di avere fiducia nella magistratura. Si tratta del livello più basso di sempre”.

Il referendum è fallito. Il degrado della “giustizia” rimane.

E allora bisognerà sforzarsi di affrontarlo con altri mezzi.