Europei 2032 a Italia e Turchia. Con una montagna di retorica

Di Gerardo Valentini

C’è qualcosa di peggio, del calcio ridotto a show-business? Purtroppo sì. È la pretesa, quanto mai ipocrita, di ammantare le decisioni organizzative di motivazioni altisonanti. Nobili. Quasi filantropiche. 

Come queste, ad esempio. Sciorinate nel luglio scorso dal presidente della Figc, Gabriele Gravina, a corredo della presentazione ufficiale della candidatura di Italia e Turchia a ospitare, insieme, gli Europei del 2032. Una candidatura che martedì scorso è appunto sfociata nel via libera dell’UEFA.

«Il progetto – declamò allora il massimo dirigente della nostra Federazione – oltre ad avvicinare due realtà consolidate nel panorama calcistico europeo, esalta i valori di amicizia e cooperazione, coinvolgendo due mondi contraddistinti da profonde radici storiche, due culture che, nel corso dei millenni, si sono reciprocamente contaminate influenzando in maniera sostanziale la storia dell’Europa mediterranea. Il calcio vuole essere un ponte ideale per la condivisione delle passioni e delle emozioni legate allo sport.»

Ma figurati.

Roma, 15 Giugno 2016. Gabriele Gravina. Firma di un protocollo d’intesa per l’Integrity in ambito calcistico tra il Presidente dell’INPS, il Direttore della Agenzia delle Entrate e il Presidente della Lega Italiana Calcio Professionistico.

Oltre che ipocrita, nel suo fingere che le motivazioni principali siano di natura valoriale e persino etica, è un pistolotto esorbitante. Di fronte al quale viene davvero voglia di dirglielo: guardi, egregio Presidente, guardate tutti voi, funzionari di prima e di seconda fila del “Football Circus”, ve lo potete risparmiare. Non ce n’è davvero bisogno, per giustificare quello che fate, di scomodare discorsi così impegnativi. 

Impegnativi e oltretutto, sul piano prettamente storico, a dir poco disinvolti. Superficiali per un verso, fuorvianti per l’altro.

Non è vero, però suona bene

Ciò che Gravina sostiene, o almeno suggerisce, è che questo specifico sodalizio sia l’esito di antichi e proficui legami. Siamo stati vicini in passato, siamo vicinissimi oggi.

L’Italia e la Turchia, afferma, sono «due culture che, nel corso dei millenni, si sono reciprocamente contaminate influenzando in maniera sostanziale la storia dell’Europa mediterranea».

Ma è una formulazione ingannevole. Che usa le parole in modo capzioso e occulta la verità storica dietro uno dei concetti più subdoli della nostra epoca: la “contaminazione”. Sottintendendo che essa sia positiva di per sé.

Non solo. Quella lettura positiva del passato è semplicemente infondata. Piaccia o non piaccia, non è affatto vero che le nostre due nazioni si siano decise a collaborare – peraltro in un ambito relativamente marginale come il calcio – a causa dei rapporti che hanno avuto nel corso dei secoli.

Lo fanno, semmai, nonostante quei trascorsi. Che spesso, spessissimo, sono stati tutt’altro che amichevoli.

Certo: ciò che è alle spalle si può superare. E una ricomposizione pacifica dei dissidi preesistenti è un eccellente obiettivo. A condizione, però, che i nuovi rapporti si costruiscano su basi di realtà, anziché su una versione edulcorata e di comodo. 

Ammesso che con la Turchia ci possa essere una sostanziale convergenza, rispetto alle immani turbolenze che stanno scuotendo gli assetti planetari, è essenziale mantenere la più lucida consapevolezza di ciò che invece rimane differente. Non solo come eredità, o incrostazione, di quanto avvenuto in precedenza ma come diversità di valori e di obiettivi.

Lasciate perdere, Gravina e soci. Sono problemi troppo grandi per contaminarli con i vostri svolazzi d’occasione: la Storia con la S maiuscola non va mischiata con le vicende pallonare. La passionalità del tifo diverte anche noi, ma a patto che non rompa gli argini e tracimi altrove.

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