Con il cappio al collo: 1.398 euro a testa, per gli interessi sul debito pubblico

Di Gerardo Valentini

Siamo semi strangolati. E già da molto tempo. Costretti a boccheggiare dal meccanismo pressoché senza scampo degli interessi sul debito pubblico. 

Un onere pesantissimo che non deriva dal disavanzo di esercizio –visto che dal 1991 in poi il saldo, esclusi gli interessi, è stato quasi sempre positivo sino al crollo delle entrate dovuto al Covid – ma da ciò che è accaduto in passato. Negli anni sciagurati in cui il disavanzo della pubblica amministrazione si è gonfiato a dismisura e ha dato il via a questo gorgo in cui siamo risucchiati, con dei numeri che ci collocano – che ci inchiodano – nella peggiore posizione tra tutti gli Stati dell’Unione Europea.

Come riportato ieri dal Sole 24Ore, per l’Italia il costo degli interessi passivi è stimato, riguardo al prossimo anno, in 83,6 miliardi, equivalenti al 4,1% del PIL e con un incremento sul 2019, l’ultimo anno prima del Covid, del 38,4%. Ovvero, come abbiamo scritto nel titolo, una zavorra di 1.398 euro per abitante. Che è quasi il doppio della media UE.

Benché i dati dei vari Stati siano assai diversi, separando nettamente le nazioni che stanno meglio da quelle più inguaiate, gli importi riassuntivi sono molto più bassi dei nostri. Sono “raffiche” di cifre e possono risultare un po’ ostiche, ma vale la pena di esaminarle. In ambito UE la percentuale sul PIL è pari all’1,9, mentre il costo pro capite è di € 715,5. Nell’area Euro siamo là: il rapporto con il PIL è identico (1,9) e la quota individuale è leggermente più alta (€ 796,3).

Ma va aggiunto un altro elemento, che non a caso viene sottolineato dal quotidiano di Confindustria. “Sempre più cari gli scostamenti: oggi costano cinque volte di più rispetto al 2020. Il miniritocco del disavanzo previsto dal Def produce nei 9 anni successivi interessi pari al 47,2% del suo valore, contro il 9,2% di tre anni fa”. 

In altre parole, il rialzo dei tassi di interesse moltiplica il loro peso e comprime al massimo i margini di manovra da parte del Governo, fin quasi ad annullarli.

Una sorta di vicolo cieco dal quale, vista l’attuale impostazione della UE (e della BCE),  non c’è modo di uscire. A meno che…

Regole sì, dogmi no

La versione ufficiale è che non si può fare altrimenti da come si fa. Non solo perché a suo tempo si sono stabilite certe linee di condotta ma addirittura perché, nella cosiddetta economia di mercato, vi sarebbero dei vincoli connaturati e insormontabili. Non proprio delle norme scritte ma di fatto qualcosa di ancora più stringente: delle concezioni teoriche e delle prassi operative che vengono innalzate al rango di leggi naturali, rendendo non solo impossibile ma addirittura impensabile che se ne possa prescindere.

A riprova di questo tipo di approccio, i finanziamenti straordinari che vengono concessi dalle istituzioni globali come il Fondo Monetario Internazionale sono subordinati all’obbligo, per i Paesi che li ricevono, di introdurre dei cambiamenti sostanziali nel proprio assetto socioeconomico. 

La stessa cosa, come ben sappiamo, avviene in ambito UE. Dove questi “cambiamenti sostanziali” vanno sotto il nome, o l’etichetta, di “riforme”. Il sottinteso è che esse sono invariabilmente proficue e, perciò, non andrebbero considerate solo necessarie ma persino desiderabili. Benché la loro introduzione comporti conseguenze sgradevoli e onerose per la generalità dei cittadini, come nel caso delle pensioni, si vorrebbe che venissero viste e accettate come delle cure alle quali conviene sottoporsi. O prima o poi – non si sa bene quando, non si sa bene tra quanto – gli effetti positivi si manifesteranno. 

Appellandosi a una migliore gestione, dunque, si cerca di affermare con ogni mezzo uno specifico modello. Puntando il dito su alcuni comportamenti deprecabili, quali l’eccesso di spesa pubblica rispetto alle entrate tributarie, ma guardandosi bene dall’essere altrettanto critici nei confronti di quei processi non meno pericolosi, ai fini della stabilità finanziaria, che costellano/infestano il mondo delle Borse e degli altri mercati prettamente speculativi. 

È su questo, che bisognerebbe aprire gli occhi. Per poi avviare, attraverso l’azione politica, un ripensamento complessivo.

Ciò che viene presentato come un insieme di verità oggettive e incontestabili, che nel loro insieme formano la “scienza economica”, è in realtà una rete di convenzioni che sono funzionali a determinati interessi e che si sono imposte via via, sino ad affermarle su scala globale.

Immaginarsi di scardinare questo assetto è del tutto irrealistico, ma se non altro si può cercare di ottenere delle condizioni migliori. E questo, nel caso del rifinanziamento del debito pubblico, significa non essere costretti a rivolgersi agli operatori privati che mirano al massimo profitto.

Quando uno Stato UE, come l’Italia, abbia provveduto da tempo a riequilibrare la spesa corrente, evitare che venga stritolato dagli interessi passivi troppo alti è un investimento sul futuro. Non soltanto suo ma dell’intera Europa. 

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