Calcio: tra sport e business ha vinto il business. Per 4 o 5 a zero, fate voi

di Gerardo Valentini

L’ultimo scandalo, arcinoto, è quello della Juventus: quindici punti di penalizzazione (a campionato in corso!) per aver gonfiato a dismisura il valore contabile di alcuni giocatori. Abbellendo così i propri bilanci, gravati da fortissime perdite che potevano esporre il club a pesanti ripercussioni. A cominciare dalla mancata partecipazione alle coppe europee, con tutto ciò che ne deriva in termini di mancati introiti. E di danno d’immagine. 

La questione, in realtà, è assai intricata e va molto al di là della sfera prettamente sportiva. Poiché la Juventus è una S.p.A., e per di più è quotata in Borsa, le contestazioni si estendono alla giustizia ordinaria. Con risvolti sia tributari sia penali. E sanzioni che comprendono addirittura il carcere: per il falso in bilancio, ad esempio, la reclusione prevista va da tre a otto anni.

Ma non è di questa specifica vicenda, che vogliamo parlare. 

Il tema vero è di portata assai più generale. Il nodo, anzi il groviglio, è quello dei cambiamenti che hanno investito il calcio e che lo hanno stravolto. Asservendolo sempre di più a finalità che con lo sport autentico hanno poco o nulla a che vedere. Ma che continuano a speculare sulla passione viscerale dei tifosi: per i quali l’identificazione nella “squadra del cuore” è appunto una passione, che di solito si accende già da bambini e che continua a divampare vita natural durante. 

Mille motivi e mille attrattive. Che si mescolano in un’unica fusione. In un’unica pulsione in cui riecheggia il bisogno di trovare un rimedio, o anche solo un surrogato, a quel senso di comunità che le società moderne hanno spazzato via. 

Un sentimento, necessario e inestinguibile, irrazionale e travolgente, che Antonello Venditti ha espresso benissimo già trent’anni fa nella celeberrima canzone che, da tifoso egli stesso, ha dedicato alla sua Roma: “Dimmi cos’è che ci fa sentire amici / anche se non ci conosciamo / Dimmi cos’è che ci fa sentire uniti / anche se siamo lontani”.

Dirglielo con esattezza è impossibile. Ma non importa. Se quello slancio lo condividi anche tu, le spiegazioni sono superflue. Altrimenti sarebbero inutili. 

“Compra questo, compra quello…”

Non siamo ingenui: quando uno sport raccoglie un ampio seguito di appassionati è fatale, in una società come la nostra, che smetta di essere solo uno sport e si tramuti in qualcos’altro, dando luogo a fenomeni più complessi e contraddittori. Da attività prettamente agonistica – che riguarda innanzitutto gli atleti e che, perciò, ha nella vittoria sul campo il suo premio essenziale – a opportunità di guadagno e di potere per chi ne gestisce l’organizzazione. 

Gli atleti diventano attori: più la messinscena ha successo e più loro verranno ricompensati. Sia in termini di guadagni, attraverso i contratti multimilionari con i club e con gli sponsor personali, sia con le lusinghe e i vantaggi della notorietà, che ne fa degli idoli per i fan e delle superstar per i media. Divi, e divetti, che si abituano a spadroneggiare: in perenne offerta a chi li paga di più, in spregio alle aspettative dei tifosi che vorrebbero un po’ di amore, in aggiunta alle prestazioni retribuite a peso d’oro.

Gli appassionati, a loro volta, diventano spettatori: ovvero, un pubblico che è disposto a pagare per vedere ciò che lo affascina, sia dal vivo che in televisione. Ed è solo il primo passo. Successivamente, in un’escalation pressoché senza scampo, il pubblico degli eventi si tramuta in una clientela onnivora. Che è ben contenta, o che non vede l’ora, di lasciarsi sedurre da ogni sorta di prodotto collaterale. Come le maglie dei suoi beniamini, ad esempio. Quelle maglie che, guarda caso, cambiano look a ogni stagione: la collezione si rinnova, il desiderio si riaccende, il business si moltiplica. 

Già: ma si moltiplica davvero, nel senso di un effettivo rafforzamento, o viceversa si gonfia, nella chiave di una crescita artificiosa e disposta a qualsiasi trucco, se non addirittura a qualsiasi illegalità?

Di ricavi si campa. Di speculazione si crepa

Per molto tempo, per troppo tempo, ci si è illusi che tutte queste sovrastrutture, tutte queste storture, fossero un vizio accessorio. Che aveva i suoi aspetti negativi ma con il quale, tutto sommato, si poteva convivere. 

A forza di chiudere gli occhi, e di rimuovere anche le più ovvie previsioni su come certi processi si sarebbero espansi all’eccesso con l’andare degli anni, si è arrivati alla situazione attuale: dove le squadre di una nazione possono essere acquistate tranquillamente (anzi festosamente) da soggetti stranieri. Che del calcio in quanto sport se ne strainfischiano e che sono interessati solo alle ricadute economiche, vedi i fondi di investimento statunitensi, o a quelle di altra natura, come gli sceicchi arabi che si sono comprati il Paris St Germain e il Manchester City. 

Oggi, ben al di là del caso Juve, bisognerebbe smetterla con questo interminabile balletto delle convenienze e dei fintissimi richiami alle regole. Che lo sport sia anche uno spettacolo, e che come tale generi dei profitti, è accettabile. Ma lo è solo a una condizione: che gli scopi del business non compromettano i valori morali che rendono lo sport un’attività essenzialmente etica e, in quanto tale, degna di riconoscimento pubblico e di tutela politica.

Gli stadi ci piacciono. I baracconi no.