American way of calcio: il Dollar-Milan caccia Paolo Maldini

Di Gerardo Valentini

Convocato e licenziato in tronco. Nella giornata di lunedì scorso. Il 5 giugno 2023.

Il comunicato ufficiale è uscito l’indomani. E vale la pena di riportarlo, di incorniciarlo, come un esempio rivoltante di aridità aziendale. Anzi, aziendalista. Che in questo caso si abbatte su un personaggio celebre e assai ben pagato, ma che è prassi corrente nel mondo delle imprese di ispirazione USA. Dove può tranquillamente accadere che i dipendenti da eliminare non vengano neanche avvisati in anticipo: arrivano la mattina, come sempre, e scoprono che il loro badge è stato disattivato. Per sempre. 

Ma leggiamo il testo. Per intero. 

“AC Milan annuncia che Paolo Maldini conclude il suo incarico nel Club, con effetto dal 5 giugno 2023. Lo ringraziamo per il suo contributo in questi anni, con il ritorno del Milan in Champions League e con la vittoria dello Scudetto nella stagione 2021/22. Le sue responsabilità saranno assegnate a un gruppo di lavoro integrato che opererà in stretto contatto con il Coach della prima squadra, riportando direttamente all’Amministratore Delegato.”

Tutto qui? Yes, tutto qui.

Una manciata di righe di cui c’è da vergognarsi ad averle pensate, scritte, pubblicate.

Un insulto a un fuoriclasse come Paolo Maldini. E ai milioni e milioni di tifosi rossoneri sparsi in Italia e nel mondo. Un insulto a chiunque ami il calcio. Lo ami e lo capisca. Non solo nei suoi aspetti prettamente sportivi, dai regolamenti alle tattiche di gioco, ma anche e soprattutto in quel particolarissimo sovrappiù di passione e di identificazione che lo rende così importante nelle vite di innumerevoli tifosi. 

Una fucina inesauribile di emozioni e discussioni, in cui i dati di fatto dei risultati si mescolano alle potenti suggestioni dei simboli. A cominciare dai “mitici” colori sociali della squadra del cuore e dai giocatori prediletti che vengono innalzati a “bandiere” del club e dei suoi sostenitori.

Irrazionale? Certamente. Ma allo stesso tempo irrinunciabile. 

Molto, moltissimo di più che un prodotto da sfruttare

Dove il calcio esiste da più tempo, come in Italia, come in Europa, come nell’America latina, pensarlo solo come uno sport è quanto mai limitativo. E ridurlo a business, schiacciandolo sotto le logiche del massimo profitto da ottenere con ogni mezzo, equivale a snaturarlo. 

La sua vera matrice è di tutt’altra natura. È il bisogno di appartenenza comunitaria. Che a sua volta è la risposta, imperfetta ma viscerale, incompleta ma necessaria, a quello sradicamento che è tipico della società contemporanea, specialmente nelle città più grandi e al massimo grado nelle metropoli: il mio vicino di casa non so neanche chi sia, e allora i miei “fratelli” li ritrovo in qualche tipo di aggregazione imperniata su altri presupposti.

Basta quella domanda.

«Ma che, sei della Roma? (o della Lazio, o di Milan-Inter-Juve, o di qualsiasi altra squadra, grande o meno grande)».

Basta quella risposta. Che di solito, quando è affermativa, è anche cordialissima e subito amichevole.

«Sì!»

E vai che si parla, che si chiacchiera, che si condivide.

Yankee sei, yankee rimani

L’anno scorso, il 31 agosto, Gerry Cardinale si è comprato il Milan. Cioè: se l’è comprato il fondo d’investimento che si chiama RedBird Capital Partners e che lui ha creato nel 2014, dopo aver lavorato per una ventina d’anni nell’ambito di un colosso bancario del calibro di Goldman Sachs

Ancora più precisamente: RedBird ha acquisito il pacchetto di maggioranza dal precedente proprietario, il fondo Elliott della famiglia Singer (statunitense anch’esso, c’è da dirlo?) per 1,123 miliardi di euro. Come spiega in dettaglio un sito specializzato in operazioni finanziarie, l’operazione è avvenuta “in una combinazione di contanti per 533 milioni di euro e loan notes emesse dall’acquirente”. Insomma: meno della metà in contanti e il resto da versare in seguito.

Debiti o non debiti, il risultato non cambia. Il nuovo boss si mette ai comandi e non vede l’ora di fare a modo suo, trapiantando qui da noi i modelli di business che ha praticato altrove e che, a suo giudizio, sono i migliori. I migliori, bisognerebbe subito aggiungere, per raggiungere i suoi scopi. Imperniati assai più sui guadagni per gli investitori che non sui successi sportivi a beneficio dei tifosi. E se qualcuno la pensa diversamente, come appunto Paolo Maldini, te lo levi di torno. Nel modo garbato che abbiamo visto.

Ciò che interessa davvero è il potenziale di sfruttamento commerciale e lo stesso Gerry non ha esitato a riconoscerlo: la scelta di puntare sul club rossonero è dipesa dal fatto che «il Milan è uno dei più grandi marchi del calcio europeo».

Ergo, me lo compro e lo sfrutto come mi pare. In altre parole: il padrone sono me.

Cardinale è italiano solo di cognome e chissà se negli USA c’è l’equivalente americano di questa frase. Ma la sostanza è quella. E nella sua testa deve essere piantata così in profondità – più di una sequoia dello Yosemite Park, peggio di un grattacielo di New York City – da essere inestirpabile. 

È lì e lì resterà per sempre. Forever and ever.

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